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Capitolo V: Il primo incarico

  Kethmer si stava asciugando il sudore dalla fronte dopo l’ennesimo allenamento massacrante. Il suo corpo, ormai temprato da mesi di lotta, si muoveva con una precisione che non avrebbe mai immaginato di possedere. Le polsiere e le cavigliere appesantite erano diventate parte di lui, quasi un’estensione del suo stesso corpo.

  La Torre lo osservava da un angolo della sala, i pugni ancora sollevati in una postura rilassata. Quando Kethmer si voltò verso di lui, l’orco fece un passo avanti, il sorriso storto che ormai gli era familiare.

  “Hai fatto progressi, microbo,” disse, incrociando le braccia sul petto massiccio. “Ora sei pronto.”

  Kethmer lo guardò, confuso. “Pronto per cosa? Non ti ho ancora colpito,” rispose, la voce calma ma con una nota di sfida.

  La Torre rise, una risata gutturale che riempì la stanza. “Non è importante. Non ancora.” Si avvicinò, dandogli una pacca pesante sulla schiena che quasi lo fece vacillare. “Solo con obiettivi impossibili le creature possono crescere. E tu, microbo, hai già dimostrato che sei in grado di superare i limiti.”

  Kethmer non disse nulla, ma il fuoco della frustrazione gli ardeva nel petto. Non era convinto. Come poteva essere pronto se non era riuscito a raggiungere l’obiettivo che gli era stato imposto?

  “Abbiamo un lavoro per una pedina come te,” continuò la Torre, il tono più serio. “Una lezione da impartire.”

  Il cuore di Kethmer accelerò. Sentiva che quel momento sarebbe arrivato, ma non era pronto al peso che la parola “lavoro” portava con sé. “Di cosa si tratta?” chiese, il fiato corto.

  “Un mercante in viaggio,” spiegò l’orco, camminando verso la rastrelliera delle armi. “Indebitato fino al collo con i Traduttori. Ha cercato di fregarci, di nascondere le sue ricchezze. Un errore che non possiamo tollerare.”

  Kethmer strinse i pugni, un’ombra di esitazione nei suoi occhi. “E cosa devo fare?”

  “Ammazzarlo,” rispose la Torre senza alcuna esitazione, prendendo una mazza dalla rastrelliera e sollevandola per ispezionarla. “In pubblica piazza. Deve essere un esempio. Devono sapere cosa succede a chi tradisce i Traduttori del Silenzio.”

  La frase cadde nell’aria come una lama. Kethmer sentì il peso di quelle parole schiacciargli il petto. Non si trattava più di allenamenti, di pugni e cadute. Questo era diverso. Questo era un omicidio.

  “Non posso—” iniziò, ma l’orco lo interruppe con un grugnito.

  “Puoi,” disse la Torre, fissandolo con uno sguardo tagliente. “Non si tratta di quello che vuoi fare. Si tratta di quello che devi fare. Se vuoi sopravvivere qui, microbo, devi imparare una cosa: la vita è solo una serie di obiettivi impossibili. E ogni volta che ne sfiori uno, cresci. ”

  Kethmer sentì la frustrazione ribollire dentro di lui, ma non trovò le parole per rispondere. La Torre gli diede un’altra pacca sulla schiena, più leggera questa volta, ma comunque abbastanza forte da farlo barcollare.

  “Domani mattina,” concluse l’orco, camminando verso l’uscita. “Preparati. Voglio vedere se sei davvero cresciuto, Pedina.”

  Quella notte, Kethmer non riuscì a dormire. La sua mente correva in cerchio, tormentata dall’idea di ciò che doveva fare. Pensava al mercante, un uomo che non conosceva, e al sangue che avrebbe versato. Ogni fibra del suo corpo voleva ribellarsi, ma ogni volta che si avvicinava all’idea di rifiutare, sentiva le parole della Torre risuonare nella sua mente.

  Solo con obiettivi impossibili le creature possono crescere.

  All’alba, si vestì in silenzio. Sapeva che non poteva scappare, ma dentro di lui, un’altra scintilla si accese: se doveva affrontare l’impossibile, allora lo avrebbe fatto a modo suo. Non sarei rimasto una Pedina per sempre.

  L’alba giunse con una freddezza spietata, nonostante l’aria tiepida di fine estate. Kethmer si alzò dal letto con il corpo rigido e la mente ancora più confusa. La sua insonnia, ormai un compagno costante, aveva trasformato i suoi pensieri in un turbinio di voci e fischi incessanti, una schizofrenia cacofonica che lo lasciava esausto ma stranamente vigile.

  Quando la Torre arrivò, vestito con abiti semplici, Kethmer era già pronto. Non servì una parola per iniziare il loro cammino. Uscirono dall’edificio percorrendo strade che Kethmer non aveva mai visto prima, lontane dai soliti corridoi e dalle sale d’allenamento. Per la prima volta, sentì di stare entrando più in profondità nel mondo che lo aveva inghiottito.

  Lungo il tragitto, incrociarono due figure che stavano parlottando tra loro a bassa voce. Le loro voci si fermarono bruscamente quando Kethmer passò, ma i loro occhi lo seguirono, pieni di un misto di curiosità e disprezzo. Erano giovani, probabilmente altre pedine, ma qualcosa nel loro sguardo suggeriva che conoscevano più di quanto Kethmer potesse immaginare.

  I fischi nelle sue orecchie si fecero più forti, e Kethmer abbassò lo sguardo, affrettando il passo per seguire la Torre.

  Quando finalmente uscirono, Kethmer si ritrovò in uno spazio vasto, circondato da mura alte e riccamente decorate. Un’enorme corte di una villa nobiliare. Per un momento, si fermò a osservare, colpito dalla magnificenza del luogo. Le statue e i giardini ben curati raccontavano una storia di opulenza, ma l’aria era cupa, gravata da un silenzio che sembrava innaturale.

  Questa è la nostra tana, pensò, il cuore che batteva più forte. I Traduttori del Silenzio non erano solo una leggenda. Erano una realtà tangibile, e lui ne faceva parte, in qualche modo.

  La Torre lo guidò verso la periferia della città, muovendosi con passo sicuro tra le strade che si animavano lentamente. Quando arrivarono in piazza, i primi mercanti stavano già imbastendo le bancarelle. L’aria era piena di voci, di odori di pane fresco e spezie. Una piazza come tante, ma quella mattina avrebbe visto qualcosa di diverso.

  La Torre indicò una taverna che dava direttamente sulla strada e si diresse al suo interno. Una donna robusta e sorridente si avvicinò per accoglierli, ma l’orco le fece un gesto con la mano: il dito indice puntato di fronte alla bocca, un movimento lento e deciso.

  La taverniera si fermò immediatamente, il sorriso che si spense in un’espressione seria e composta. “Cosa posso portare ai miei signori?” chiese con tono rispettoso.

  “Birra e carne per me,” rispose la Torre, affondando pesantemente su una sedia di legno. Poi si girò verso Kethmer, che era ancora in piedi, rigido e ansioso. “E tu?”

  Kethmer deglutì a fatica, il sapore dell’ansia che gli saliva alla gola. “Non voglio niente,” rispose, con un filo di voce.

  L’orco sbuffò e si voltò verso la taverniera. “Formaggio e miele per lui,” ordinò. Poi, con un tono basso e tagliente, aggiunse: “Non si porta a termine un contratto a stomaco vuoto.”

  Kethmer si sedette lentamente, il corpo che tremava leggermente mentre la donna portava il cibo e la birra. L’odore del miele e del formaggio gli riempì le narici, ma l’appetito non arrivò. Guardava il cibo senza toccarlo, le mani che stringevano il bordo del tavolo.

  “Quel gesto…” mormorò infine, rivolgendosi alla Torre.

  L’orco, che stava già addentando un pezzo di carne, lo guardò con la coda dell’occhio e deglutì. “Un segno di riconoscimento,” spiegò. “I Traduttori del Silenzio lo usano per ottenere quello che vogliono: un pasto caldo, una stanza per la notte, persino l’accesso a un bordello. Più sei rispettato e conosciuto, più vantaggi ottieni.”

  Kethmer rimase in silenzio, il cervello che elaborava le implicazioni di quelle parole. Riconoscimento. Potere. Era tutto codificato, tutto regolato da simboli e gesti che nascondevano il controllo che i Traduttori esercitavano sul mondo.

  L’orco lo scrutò per un momento, poi tornò a mangiare, il suo sguardo indifferente. “Mangia,” ordinò infine. “Se non lo fai, il mercante non sarà l’unico a cadere oggi.”

  Kethmer, nonostante la nausea e l’ansia che gli attanagliavano lo stomaco, iniziò a mangiare. Il formaggio e il miele gli sembravano estranei, privi di sapore, ma obbedì al comando dell’orco, portando il cibo alla bocca con movimenti meccanici. Il rumore delle voci nella piazza entrava dalla finestra, mescolandosi ai fischi incessanti che ronzavano nelle sue orecchie.

  L’orco lo osservava dall’altro lato del tavolo, masticando lentamente un pezzo di carne. Quando Kethmer si fermò per un istante, la Torre sbuffò e appoggiò il boccale di birra con un tonfo. “Allora, microbo,” disse, con una nota di curiosità nella voce. “Come pensi di farlo?”

  Kethmer lo fissò, confuso. “Di far cosa?”

  “Di uccidere il mercante, ovviamente,” rispose l’orco, un sorriso storto che si apriva sul suo volto cicatrizzato. “Strappargli la trachea? Fargli esplodere gli occhi? O forse preferisci soffocarlo?” Mimò ogni metodo con un gesto esagerato, afferrandosi il collo e fingendo di scuotere il capo, poi simulando una mano che stringeva il viso immaginario del mercante. “Oppure, che ne so, volevi usare un coltello?” aggiunse, mimando una pugnalata ripetuta.

  La sua teatralità aveva un’aria infantile, quasi giocosa, ma i suoi occhi tradivano una certa curiosità autentica. Sembrava voler capire come Kethmer avrebbe affrontato quella prova.

  Kethmer rimase in silenzio, le mani che stringevano il pezzo di formaggio nel piatto. Non ci aveva pensato. Non aveva calcolato il come, il quando, il modo in cui avrebbe messo fine alla vita di un uomo. Era stato troppo occupato a temere l’atto stesso, a chiedersi se avrebbe trovato il coraggio. La sua incertezza si rifletté sul suo volto, e l’orco la notò subito.

  La Torre sospirò, il sorriso svanito. “Davvero, microbo? Non hai pensato a niente?” chiese, la voce che si abbassava in una nota di delusione. “E io che pensavo stessi finalmente crescendo.”

  Kethmer sentì un nodo stringersi nel petto. Le parole dell’orco erano come un colpo al fianco, ma non seppe rispondere. Rimase immobile, fissando il piatto come se potesse trovare lì una risposta.

  “Uccidere non è un’arte improvvisata, Pedina,” continuò la Torre, il tono più serio. “Devi sapere cosa vuoi fare, come vuoi farlo. Non puoi esitare. L’esitazione ti ucciderà prima ancora del tuo nemico.”

  Kethmer alzò lo sguardo, ma non disse nulla. L’orco lo fissava con occhi freddi, aspettandosi qualcosa, qualsiasi cosa. Ma quando Kethmer non rispose, la Torre scrollò le spalle e tornò al suo pasto.

  “Mangia,” ordinò, senza guardarlo. “Non avrai molto tempo per pensare quando sarà il momento.”

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  La Torre si alzò dalla sedia, il boccale vuoto che tintinnava sul tavolo mentre lo spostava di lato con un gesto pesante. Fece cenno a Kethmer di seguirlo e si diressero verso la finestra che dava sulla piazza. L’aria fresca del mattino portava con sé il mormorio crescente della città che si svegliava: i mercanti che montavano le bancarelle, i primi acquirenti che vagavano tra i banchi, le voci che si intrecciavano in un caos ordinato.

  “Guarda quella statua,” disse la Torre, indicando il centro della piazza con un movimento deciso. “Quella è il tuo punto di riferimento. Tutto si gioca lì.”

  La statua raffigurava un cavaliere in armatura pesante, la spada sollevata verso il cielo in un gesto trionfante. Attorno alla base si radunavano le prime ombre della folla che cominciava a popolare la piazza.

  L’orco infilò una mano nella tasca e tirò fuori un piccolo orologio d’argento. Lo aprì con uno scatto secco, mostrando a Kethmer le lancette che si muovevano con precisione. “Questo,” disse, alzando l’orologio affinché lo vedesse bene, “è il miglior alleato di un assassino. Il tempo. Ogni cosa deve accadere quando lo decidi tu. Non prima, non dopo.”

  Kethmer osservava in silenzio, i nervi tesi, il cuore che batteva in sincronia con i fischi nelle sue orecchie. La Torre si voltò verso di lui, fissandolo con quegli occhi gelidi che sembravano perforarlo.

  “A breve arriverà il tuo bersaglio,” continuò. “Un mercante. Giovane, sbarbato, umano. Un pivello che si crede furbo ma che ha giocato male le sue carte con i Traduttori. Sta arrivando per un affare importante, uno scambio orchestrato a tradimento da noi. Sarà vestito con un mantello di velluto verde, una camicia bianca, e avrà baffi sottili e capelli ben curati. Non puoi sbagliarti.”

  L’orco fece una pausa, osservando il movimento della piazza sotto di loro. “Aspetterà un venditore. Si metterà vicino alla statua, nervoso, ma cercherà di non darlo a vedere. Quando arriva, non esitare. Vai, uccidi, e torni da me.”

  Kethmer sentì il sangue gelarsi nelle vene. “E se qualcuno mi ferma?” chiese, la voce spezzata da una tensione che non riusciva a controllare.

  La Torre si girò verso di lui, un ghigno crudele che si allargava sul suo volto. “Se qualcuno ti dà noia, o quelle bambole delle guardie provano a fermarti, fai il segno del silenzio.” Alzò il dito indice davanti alla bocca, il gesto che Kethmer aveva visto per la prima volta nella taverna. “Capito?”

  Kethmer annuì lentamente, ma il suo stomaco si contorceva. Le parole della Torre gli rimbombavano nella testa, mescolandosi ai fischi che non lo lasciavano mai in pace. Vai, uccidi, e torni da me.

  La Torre richiuse l’orologio con uno scatto secco, il rumore che sembrava segnare il momento in cui la vita di Kethmer stava per cambiare per sempre. “Bene,” disse l’orco. “Ora vai. E ricorda: il tempo è il tuo alleato. Non sprecarlo.”

  Kethmer si immerse nella piazza, il corpo in movimento ma la mente ancorata in un tumulto interiore che lo divorava. Ogni passo lo avvicinava all’atto che lo definiva come Pedina, ma anche come qualcosa di nuovo, qualcosa che non sapeva ancora spiegare. I mercanti alle bancarelle lo osservavano con diffidenza, gli sguardi che scivolavano sulle occhiaie scure sotto i suoi occhi, sul nervosismo che emanava da ogni poro. Il suo volto non era quello di un cliente, né quello di un passante. Era quello di un uomo sull’orlo del baratro.

  Ogni occhiata lo faceva rabbrividire, ma non poteva fermarsi. Vai, uccidi, e torni da me. La voce della Torre rimbombava nel suo cranio, mescolandosi ai fischi incessanti che si facevano sempre più forti.

  Poi lo vide. Il mercante.

  Un giovane umano, come descritto, avanzava con passo sicuro verso il centro della piazza. Il mantello di velluto verde ondeggiava leggermente dietro di lui, e i baffi sottili sopra il labbro tradivano una certa cura per l’apparenza. Camicia bianca, capelli ben curati. Non puoi sbagliarti, aveva detto la Torre.

  Eppure, in quel momento, Kethmer sentì il mondo crollargli addosso. Il fischio nelle sue orecchie raggiunse un volume insopportabile, una nota singola e tagliente che gli perforava il cranio. Si bloccò. I piedi incollati al terreno, le mani tremanti, il respiro spezzato. Tutto sembrava muoversi troppo velocemente e troppo lentamente allo stesso tempo.

  La folla intorno a lui sfumava, le figure si trasformavano in scie colorate che danzavano ai margini della sua visione. I suoni—le voci, i passi, il mormorio del mercato—svanirono sotto il peso del fischio, lasciandolo in un vuoto surreale. La piazza si ridusse a un unico punto: il mercante, immobile davanti alla statua, ignaro di ciò che stava per accadere.

  Kethmer sentì le gambe muoversi, quasi contro la sua volontà. I suoi passi erano lenti, incerti, ma lo portavano avanti. Ogni metro lo avvicinava al suo obiettivo, mentre il fischio nelle orecchie si trasformava in un ruggito assordante.

  Poi si fermò. Era davanti al mercante. Il giovane lo guardò per un istante, il volto che si contraeva in una leggera perplessità. Ma Kethmer non riusciva a vedere i suoi occhi. Non riusciva a sentire le sue parole, se mai avesse detto qualcosa. Il mondo era una macchia sfocata di colori e suoni che non poteva percepire.

  Era solo lui e il fischio. E il sangue che sapeva avrebbe versato.

  Kethmer agì senza pensare, i movimenti rapidi e brutali, guidati da qualcosa di primordiale e incontrollabile. Un pugno devastante colpì la trachea del mercante, un suono sordo e viscerale che sembrò assorbire ogni altra cosa. Il giovane umano crollò all’indietro, le mani che si portavano al collo, incapace di respirare.

  Senza esitazione, Kethmer alzò una gamba e sferrò un calcio violento che lo scaraventò a terra. La folla attorno a lui si agitò, le urla si levarono improvvise, ma per Kethmer erano inesistenti. Il mondo era ancora avvolto in quel vuoto surreale, il fischio nelle orecchie che riempiva tutto.

  Afferrò il mercante per i capelli, tirandolo verso il gradino di marmo sotto la statua. Il suo corpo si muoveva con una ferocia meccanica, privo di esitazione. Schiantò la testa del mercante contro il marmo, facendogli mordere l’angolo di un gradino, il suono dell’impatto che gli vibrò nelle ossa. Il giovane cercava ancora di capire cosa stesse accadendo, i denti che stridettero contro la pietra.

  Kethmer sollevò una gamba e con un calcio ben piazzato colpì la nuca del mercante. L’impatto fu secco, definitivo. Il cervelletto si spezzò sotto la forza del colpo, e il corpo del giovane si afflosciò, inerte. Il sangue colava lentamente sul marmo, disegnando un fiotto scarlatto attorno alla statua.

  Per un istante, il mondo si fermò.

  Il fischio nelle orecchie, che lo aveva tormentato per mesi, svanì improvvisamente. Una calma irreale scese su di lui, e una sensazione calda e appagante lo avvolse, come una coperta in una notte gelida. Per la prima volta, Kethmer non sentì il caos dentro di sé. Non sentì il vuoto, la rabbia, la disperazione. Sentì solo… pace.

  Aprì le braccia, estatico, lasciando che quella sensazione lo attraversasse. Chiuse gli occhi, il respiro profondo, e per quei pochi secondi non pensò a niente. Non c’era odio, non c’era dolore. Solo un appagamento che sembrava quasi divino.

  “Andiamo.”

  La voce della Torre lo strappò dalla sua trance. Kethmer aprì gli occhi e si voltò lentamente. L’orco era dietro di lui, imperante come sempre, ma con uno sguardo che tradiva una strana approvazione. Attorno a loro, la piazza era congelata: la folla si era ammutolita, i visi terrorizzati fissavano la scena.

  L’orco alzò il dito indice davanti alla bocca, facendo il gesto del silenzio. La folla si ritrasse, gli occhi abbassati, come se quel piccolo movimento fosse un comando impossibile da ignorare.

  “Andiamo, Pedina,” ripeté l’orco, voltandosi per tornare verso la taverna. Kethmer lo seguì senza una parola, il corpo ancora scosso da ciò che aveva appena fatto. Ma dentro di lui, qualcosa era cambiato. Il fischio era svanito. E con esso, forse, un pezzo della sua vecchia identità.

  Kethmer seguì la Torre attraverso le strade della città, i passi lenti e pesanti mentre la sua mente ripercorreva ogni dettaglio di ciò che era appena accaduto. Il silenzio interiore che aveva sperimentato durò appena qualche minuto, come una tregua fragile e illusoria. Poi, il fischio tornò.

  All’inizio fu un sussurro, un suono distante che si insinuò nella sua mente. Ma in pochi secondi si trasformò in un ruggito familiare, una nota stridula che gli perforava il cranio. Stringendo i denti, Kethmer scosse la testa, tentando di scacciarlo, ma senza successo. La sensazione di pace che aveva provato si sgretolò, lasciandolo stizzito, quasi furioso. Non sarebbe mai finita.

  Mentre si avvicinavano alla taverna, la Torre si fermò improvvisamente e si voltò verso di lui. L’orco lo guardò con un’espressione diversa dal solito: non c’era il solito disprezzo nei suoi occhi, né il sarcasmo che accompagnava ogni sua parola. Invece, un leggero accenno d’orgoglio deformava il suo sorriso.

  “Te la sei cavata bene,” disse la Torre con un tono fiero, dando una pacca sulla spalla di Kethmer che quasi lo fece vacillare. “Quel colpo alla testa… plateale. Esattamente quello che serviva. Hanno visto tutti, e ora sanno cosa succede quando qualcuno tradisce i Traduttori.”

  Kethmer annuì lentamente, il volto ancora contratto dalla frustrazione. Ma l’orco non aveva finito.

  “Ma cos’era quella roba alla fine?” aggiunse, alzando un sopracciglio. Si fermò per un attimo, poi aprì le braccia, mimando la posa estatica che Kethmer aveva assunto dopo l’omicidio. “Cos’era, una statua vivente? Un artista in scena? Una benedizione divina, forse?” Ridacchiò, la voce bassa che rimbombava nel vicolo.

  Il commento era sarcastico, ma non pieno di cattiveria. Sembrava quasi che la Torre volesse prendersi gioco di lui con una sorta di complicità.

  Kethmer, spiazzato, non rispose immediatamente. Lo guardò, il fischio che continuava a martellargli le tempie. Una parte di lui voleva reagire, dire qualcosa, ma la stanchezza e la confusione lo trattennero. Alla fine, si limitò a scuotere la testa, mentre un piccolo ghigno gli si formava sulle labbra. Forse c’era qualcosa di ironico in tutta quella situazione, anche se non riusciva a comprenderla appieno.

  “Dai, Pedina,” disse la Torre, riprendendo il cammino con un sorriso storto. “Non prendertela. L’importante è che il lavoro è stato fatto. E che l’hai fatto bene.”

  Il sole era ormai alto quando Kethmer e la Torre rientrarono nella villa. Il caos della città sembrava un ricordo lontano, soffocato dalla quiete irreale che avvolgeva quella tana opulenta e mortale. L’orco camminava con passo deciso, ma senza fretta, come se il mondo gli appartenesse. Kethmer lo seguiva, il corpo esausto ma la mente ancora affollata da domande e dal ronzio incessante del fischio che gli tormentava le orecchie.

  Mentre percorrevano i corridoi riccamente decorati, la Torre si fermò improvvisamente e si voltò verso di lui. “Sai, Pedina,” iniziò, con un tono meno brusco del solito, “ora che hai fatto il tuo primo lavoro, è ora che tu capisca come funziona davvero questo posto.”

  Kethmer alzò lo sguardo, le sopracciglia leggermente aggrottate. “I contratti?” chiese, la voce più ferma di quanto si aspettasse.

  L’orco annuì, un accenno di sorriso che gli increspava le labbra. “Esatto. Ogni assassino con un ruolo—Cavallo, Alfiere, Torre—ha il compito di reclutare e addestrare una squadra di pedine. Quelle pedine fanno i lavori sporchi per noi, esattamente come hai fatto tu oggi.”

  “E la regina?” chiese Kethmer, incuriosito.

  “La regina,” continuò la Torre, con un tono che trasudava rispetto, “è quella che tiene tutto sotto controllo. Può assegnare contratti alle figure come me, o più importanti, se necessario. è lei che mantiene l’equilibrio, che stabilisce le priorità. Senza la regina, i Traduttori del Silenzio sarebbero solo un’orda di assassini senza direzione.”

  Kethmer si fermò un attimo, i pensieri che si affollavano nella sua mente. “E il re?” chiese infine, la domanda che gli bruciava sulle labbra.

  L’espressione della Torre cambiò, diventando più seria. “Il re,” disse, lentamente, “protegge la regina. Ma non è solo una guardia del corpo. è la figura che risolve i problemi interni. Quando ci sono conflitti, dubbi, o… insubordinazioni, il re interviene. è il cavaliere nero che hai visto nell’arena, quel giorno.”

  Kethmer sentì un brivido attraversargli la schiena. I ricordi di quell’uomo in armatura nera erano sfocati, ma qualcosa di quell’esperienza gli era rimasto impresso: la sua presenza, imponente e inesorabile. Il colpo alla testa, il buio. Ora quei frammenti tornavano a galla, ma come ombre vaghe che non riusciva a catturare del tutto.

  “Lui…” mormorò Kethmer, cercando di mettere ordine nei suoi pensieri. “Era… freddo. Distante.”

  “Esatto,” confermò la Torre, incrociando le braccia. “Non c’è nulla di umano nel re. Lui è l’incarnazione del potere dei Traduttori, l’ultimo baluardo contro chiunque osi minacciare l’ordine. Non vuoi trovarlo contro di te, Pedina.”

  Kethmer annuì lentamente, ma il suo sguardo rimase basso. I ricordi frammentati continuavano a tormentarlo, intrecciandosi con il fischio che non gli dava tregua. Ogni nuovo dettaglio sul funzionamento dei Traduttori sembrava costruire un labirinto intorno a lui, una rete da cui sapeva che sarebbe stato impossibile uscire.

  “Bene,” concluse la Torre, con un cenno del capo. “Ora che sai come funziona, forse capirai meglio il tuo posto. Ricorda: il tempo e i contratti non aspettano nessuno.” Fece un gesto con la mano, indicandogli il corridoio che portava alla sua stanza. “Riposa, Pedina. Domani sarà un altro giorno.”

  Ma Kethmer sapeva che il riposo era ormai un lusso che non gli apparteneva più.

  Quando la Torre si voltò per lasciare la stanza, Kethmer lo fermò con una voce roca, appena più di un sussurro. “Aspetta.”

  L’orco si fermò, senza voltarsi del tutto. “Che c’è, Pedina? Hai già troppe domande per una giornata.”

  Kethmer si morse il labbro, ma il pensiero gli bruciava dentro. “In quanti… in quanti siamo nella tua squadra, Torre?”

  L’orco rimase in silenzio per un attimo, poi esplose in una risata gutturale, profonda e feroce, che riempì il corridoio. “Squadra? Ah, microbo… Sei solo.”

  Kethmer aggrottò la fronte, confuso. “Solo? Nessuno?”

  La Torre si voltò completamente, fissandolo con un ghigno che sembrava oscillare tra ammirazione e divertimento. “Nessuno è mai riuscito a sopravvivere ai miei allenamenti fino al primo lavoro. Sei il primo, Pedina. L’unico. Un miracolo o un errore, non saprei dire.” Poi, con un cenno del capo, concluse: “Ora dormi. Domani sarà più dura.”

  Prima che Kethmer potesse rispondere, la Torre si voltò e sparì nel corridoio, lasciandolo solo con il peso di quelle parole. L’elfo si sedette sul bordo del letto, il corpo stanco ma incapace di trovare riposo. Solo. Sempre solo.

  Quando si sdraiò, il fischio nelle sue orecchie tornò come una vecchia nemesi, e Kethmer capì che anche quella notte sarebbe stata un’altra battaglia contro l’insonnia.

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