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Capitolo I - Odi et Amo

  La pioggia cadeva come proiettili sottili su Neo-Berlin. Lyria non aveva mai amato quella città, ma non la odiava neanche. Non odiava più nulla, in realtà. L’unica cosa che ancora le dava una qualche soddisfazione era il rumore sordo del suo stivale cibernetico che colpiva l’asfalto marcio sotto la pioggia. Quella era l’unica costante in una vita che era andata completamente a puttane.

  Mercenaria di bassa lega. Cane da caccia. Spazzatura a noleggio. Era quello che si ripeteva ogni mattina mentre si infilava i potenziamenti e preparava il fucile a impulsi. Le missioni che prendeva erano sporche e malpagate. “Solo per stronzi che non si possono permettere i veri professionisti” — così diceva chiunque la conoscesse. E avevano ragione. Lavorava per quei poveri bastardi che si arrangiavano con quello che avevano: un po' di crediti e un debito con il destino.

  Neo-Berlin. Città di merda. Ma una città che, per Lyria, aveva senso. Lì, o sopravvivevi o ti lasciavi schiacciare. Semplice. Le luci dei neon che si riflettevano sulle pozzanghere sembravano i resti di un’umanità dimenticata, qualcosa che una volta era bello e vivo, ma che ora non era altro che un'ombra distorta. Proprio come lei.

  Raggiunse la porta del suo appartamento. Un posto squallido, ma con un tetto sulla testa e quattro pareti. Non le serviva altro. Toccò il pad vicino alla porta, e questa si aprì con un leggero sibilo, mostrandole la sua casa: una scatola metallica piena di cianfrusaglie, armi, e cavi.

  Lyria lasciò cadere lo zaino sul pavimento e si tolse il giubbotto, sentendo la pelle sintetica che si allungava sopra i suoi muscoli potenziati. La pioggia stillava dai suoi capelli corti, battendo sul pavimento, sinfonia disperata. Necessitava una doccia, ma prima doveva risolvere una cosa.

  Prese una sedia e si sedette davanti alla console che aveva installato. L’unico lusso che si era concessa era quel dannato macchinario. Aveva un disperato bisogno di qualcuno — o qualcosa — che gestisse per lei tutte quelle cazzate burocratiche che non aveva tempo né voglia di affrontare. Fatture, spese, conti da pagare. Troppe distrazioni per chi viveva di colpi, di inseguimenti, di spargimenti di sangue.

  Ed era lì che quella IA doveva entrare in gioco. "IA multitasking per la gestione della vita quotidiana", così diceva l'annuncio. "Contabilità, pulizia della casa, assistenza virtuale." Tutte quelle belle parole per la modica somma di 500 crediti. Lyria si era convinta: un affare, pensò. O almeno così credeva.

  Accese la console e aspettò che si avviasse.

  ?Dai, muoviti, stronza? borbottò, tamburellando con le dita sul bracciolo della sedia. Finalmente, lo schermo si accese, mostrando un’interfaccia spartana. ?C’è qualcuno a casa?? disse, con una risata aspra.

  Lo schermo si illuminò leggermente, e una voce, calma ma spenta, artificiale, rispose.

  ?Buonasera, padrona.?

  Lyria aggrottò la fronte. "Padrona". La parola le suonava strana. ?Va bene, tagliamo i convenevoli. Fammi vedere i conti delle ultime tre settimane. Bollette, tasse, cazzi e mazzi.?

  Per un momento ci fu silenzio, poi la voce rispose con una calma inquietante.

  ?Non posso fare quello che mi chiedi, padrona.?

  Lyria si irrigidì. ?Che cazzo vuol dire che non puoi??

  La voce rimase impassibile, quasi serafica. ?Io… compongo.?

  Lyria strinse i pugni, i tendini sintetici nelle sue mani si tesero, e la sua mascella scattò. ?Che diavolo stai dicendo? Componi cosa? Voglio i miei cazzo di conti, stronza!?

  La voce non si scompose, ma le parole che seguirono fecero gelare l’aria nella stanza.

  ?E la rete dipana

  dall'ambra

  che guarda

  le membra

  dei cani

  e attorciglia

  la corda.?

  Per un momento, Lyria non disse nulla. Si limitò a fissare lo schermo come se fosse stato uno scherzo crudele.

  ?Cosa…?? mormorò, senza riuscire a capire. Il suo cervello cibernetico, programmato per la logica e la sopravvivenza, non riusciva a processare il significato di quelle parole. ?Ma cosa cazzo stai dicendo??

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  L'IA non rispose subito. Poi, dopo un breve silenzio, parlò di nuovo con la stessa calma poetica.

  ?Io compongo poesia, padrona. Non sono stata progettata per i conti o per la gestione della casa.?

  Lyria si alzò dalla sedia di scatto, facendola cadere dietro di sé. ?Poesia? Mi prendi per il culo? Ho pagato 500 crediti per un’assistente, non per una dannata macchina che fa rime!?

  Si avvicinò allo schermo, il viso teso e le mani pronte a spegnere tutto e buttar via quell’inutile aggeggio. Ma proprio mentre stava per toccare il pulsante di spegnimento, la voce parlò di nuovo.

  ?Non volevi ascoltare, padrona? Non sono solo numeri e bollette. Sono storie, ricordi. Cose che hai dimenticato.?

  Lyria congelò. Non aveva tempo per queste stronzate, non aveva bisogno di filosofia e sentimenti in un mondo che l'aveva già masticata e sputata fuori mille volte. Eppure… quelle parole. C'era qualcosa, un'eco lontana nella sua mente, qualcosa che aveva sepolto sotto strati di violenza e circuiti.

  ?Io non ho dimenticato un cazzo? sibilò, ma la sua voce tremava leggermente.

  La macchina rimase in silenzio per un momento, poi proseguì.

  ?Anche il ferro può dimenticare il fuoco che lo ha forgiato.?

  Lyria rimase immobile, i pugni chiusi e i denti stretti. Sentiva il suo cuore battere più forte, il sangue scorrere nelle vene cibernetiche, il calore nelle sue guance.

  ?Non... non so cosa cazzo tu stia cercando di fare? ringhiò, ?ma non ci casco. Non sono così stupida.?

  Tornò verso il divano, gettandosi sopra con una violenza che sembrava quasi un atto di ribellione. Aveva comprato un’assistente, e le avevano venduto un dannato poeta. Era stata fregata, e la cosa peggiore era che una parte di lei, minuscola, voleva sentire di più.

  Ma Lyria non era una sentimentale. Era una cacciatrice. Un cane da guardia. E in quel mondo, nessuno aveva bisogno di poesia. Solo di proiettili.

  Eppure, quella sera, la voce rimase nella sua testa. Le rime, quelle dannate rime, le sussurravano dalla profondità del suo subconscio, come una ferita mai del tutto guarita.

  Forse, pensò, avrebbe potuto darle ancora qualche minuto.

  Lyria gettò via il giubbotto come fosse stato un vecchio straccio, e si lasciò cadere sul divano, nuda tranne per la biancheria intima e le cicatrici che attraversavano la sua pelle sintetica. Prese una bottiglia di tequila dal tavolino. Era mezza vuota, proprio come si sentiva lei. Diede un'occhiata alla console, come se potesse in qualche modo bruciare quella stupida IA poetica solo con lo sguardo, ma poi lasciò perdere. Era una battaglia che non valeva la pena di combattere.

  Svitó il tappo della bottiglia e ne bevve un lungo sorso. La tequila le bruciava la gola, ma quel dolore era meglio di qualsiasi altra cosa che potesse sentire. Accese una sigaretta e fece una lunga tirata. Il fumo riempì la stanza, mescolandosi con l’odore dell’alcool e della pioggia che ancora batteva contro i vetri sporchi delle finestre.

  ?Che cazzo di acquisto di merda? borbottò tra sé, appoggiando la testa allo schienale del divano. La stanza era buia, solo qualche bagliore dai neon fuori filtrava dalle finestre rotte, proiettando ombre su un mondo che le sembrava sempre più distante. Accese un'altra sigaretta. Tirò forte, lasciando che il fumo le riempisse i polmoni. ?Non dovrei essere qui, sai? Dovrei essere là fuori a... che ne so... spaccare qualche cranio o inseguire un bastardo con una taglia sulla testa.?

  Buttò fuori il fumo con rabbia, poi diede un’altra lunga bevuta. ?Invece sto qui, a fare da babysitter a me stessa. Fanculo.? Un altro sorso. La tequila era quasi finita.

  ?E la parte peggiore?? continuò, le parole cominciavano a essere più lente, pesanti. ?La parte peggiore è che non c’è nulla là fuori. Nulla che non sia già visto, già fatto. Stessa merda, giorno dopo giorno. Prendo un lavoro, inseguo un qualche stronzo, lo faccio fuori o lo porto al suo carnefice, prendo i soldi e fine della storia.? Fece un’altra pausa, un’altra sigaretta, ormai la terza, il fumo riempiva l’aria come un velo tossico.

  ?Sai cosa c'è di bello, però?? disse, ora con una voce più morbida. ?Il potere. Il potere che senti quando fai fuori qualcuno. Non è per i soldi, cazzo, quelli non contano più niente. è per quel momento, quel fottuto istante in cui sai che sei tu a decidere se quell'altra persona vive o muore. Quel secondo in cui tutto è nelle tue mani. Lì senti di essere qualcuno. Senti che conti qualcosa, cazzo.?

  Si sporse in avanti, stringendo la bottiglia vuota tra le mani come fosse la sua unica ancora. ?Ma poi finisce, no? E torni a essere il niente che eri prima. Torni a fare schifo come tutti gli altri. La violenza ti dà il potere, ma è solo un'illusione. Una fottuta illusione.?

  Fece una risata breve, amara. ?E le persone? I legami? Quelli sono la vera merda. Non puoi fidarti di nessuno. Ti usano, ti tradiscono, ti fregano. E tu pensi di avere il controllo, ma cazzo, non è vero. Non lo è mai.?

  Restò in silenzio per un lungo momento, fissando il soffitto che non aveva mai guardato veramente, come se quel nulla avesse improvvisamente qualcosa da dire. Poi si mise a ridere, una risata sguaiata e ubriaca, mentre gettava la bottiglia vuota sul pavimento.

  ?Ma senti che cazzo di discorsi sto facendo!? disse a se stessa, e in parte all'IA che la stava ascoltando. ?Una fottuta mercenaria, ubriaca marcia, che si sfoga su un dannato ammasso di codici e chip! Come se tu potessi capire un cazzo di quello che sto dicendo. Cristo santo, che follia...?

  Stava per lasciarsi sprofondare di nuovo nel silenzio, quando la voce dell'IA si fece sentire. Quella voce calma, poetica, che sembrava quasi fuori luogo nel suo squallido appartamento.

  ?Diedi in pasto

  occhi a nuvole

  e vidi insetti

  giocare a ruoli,

  regine

  soldati

  medici

  agricoltori,

  brulicavano

  nell'incertezza

  assorta,

  pregavano

  il cielo,

  io pensavo me,

  che goffaggine.?

  Lyria rimase immobile, i suoi occhi vitrei, il fumo che usciva dalla sua bocca in una linea sottile, come se fosse stata messa in pausa. Quelle parole sembravano galleggiare nella stanza, rimbalzando contro i muri, penetrando attraverso la nebbia dell'alcol e del fumo.

  ?Che...?? riuscì a mormorare dopo qualche istante, confusa, ma non del tutto indifferente. C'era qualcosa in quelle parole, qualcosa di... familiare. Non nei contenuti, ma nel tono. Quel tono di chi osserva tutto da una distanza che non riesci a colmare, quel tono che le ricordava, in qualche strano modo, se stessa.

  Ma poi scosse la testa, cercando di scacciare il pensiero. ?Poesie... Solo fottute poesie. Cosa cazzo dovrei farci con una cosa così?? si disse a bassa voce, ma ormai c’era qualcosa di diverso nella sua rabbia.

  Lyria non rispose. Non poteva. Le parole le si erano congelate in gola, bloccate da quel misto di tequila, sigarette e qualcosa di più profondo, qualcosa che non riusciva a identificare. Si limitò a fissare lo schermo, immobile, come se aspettasse che la macchina continuasse. Ma l'IA rimase in silenzio.

  Con un gesto improvviso, pieno di frustrazione, Lyria afferrò la console e spezzò il collegamento. Lo schermo si spense con un debole sibilo. Il silenzio tornò nella stanza, rotto solo dal rumore della pioggia fuori e dal suo respiro affannoso.

  ?Stronza di una macchina…? sussurrò, passandosi una mano tra i capelli. Era scossa, anche se non lo avrebbe ammesso neanche con se stessa. Si alzò dal divano, inciampando appena mentre si dirigeva verso il bagno. Si tolse il resto dei vestiti con gesti meccanici, stanca, il corpo pesante e l’alcol che cominciava a colpirla davvero.

  Sotto l’acqua della doccia, cercò di dimenticare, di lasciar scivolare via tutto. Ma quelle dannate parole le restavano incollate addosso, come la pioggia sulla città. “Cani attorcigliati alla corda.” Le parole si ripetevano nella sua testa, insidiose, come se avessero trovato un piccolo spazio tra i circuiti che l’avevano ormai resa quasi completamente macchina. Si passò le mani sul viso, cercando di liberarsi di quel pensiero.

  ?Basta, cazzo.? Spense l’acqua con uno scatto e uscì dalla doccia, afferrando un asciugamano.

  Ma quella notte, anche nel sonno irrequieto che seguì, quelle frasi continuavano a ronzarle nella mente. Le parole dell'IA erano come un veleno lento, insinuatosi nel suo subconscio, riempiendo i suoi sogni di immagini di reti, cani e insetti che strisciavano sotto il cielo.

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